La visione della natura Storia privata di un genere

Claudio Guarda

Non è un caso che la recente serie di Nature morte di Giuliano Collina si origini e sviluppi a partire dal ciclo delle Ultime Cene che immediatamente la precede. Chi conosce l'opera di Collina sa infatti come tutta la sua produzione artistica si articoli in ampi cicli tematici all'interno dei quali - a volte sulla lunghezza di più anni - egli esplora e varia, con sorprendente mobilità, le potenzialità espressive del soggetto, fino al loro esaurimento e al profilarsi di un nuovo "motivo"; il quale, non di rado, si diparte proprio a lato del vecchio tronco, come un germoglio di rinnovata vitalità. Se non che, poi, un artista, per quanto amplifichi i soggetti della sua pittura, non può che dire le cose che sente, e dirle nel modo in cui le sente: obbedisce insomma a leggi interne che ne determinano la coerenza e la continuità, pur nella variazione. é così che Collina si ritrova, a distanza di anni e talvolta di decenni, riportato su luoghi e immagini già visitati in passato, a riprendere temi o motivi già sviluppati in cicli precedenti, in altre parole a confrontarsi di nuovo con la sua storia umana ed artistica. Ne deriva un percorso pittorico che, periodicamente, ritorna sui propri passi come a dei gangli ineludibili di verità, ma a un livello diverso, in forma di spirale che sale e si amplifica a partire da un centro originario. Eppure, diversamente da quanto ci si potrebbe attendere, quantomeno nel caso delle sue nature morte, alla dilatazione dei tempi non corrisponde una parallela amplificazione dei soggetti, tanto succosi e variati dentro la storia, anche novecentesca, del genere. Al contrario, il repertorio iconografico della natura morta in Collina è ristretto a poche cose che tornano con un'insistenza ossessiva a riproporsi nel tempo; quelle stesse che, a ben guardare, sono già tutte presenti, come in un incunabolo, al centro di quella sua grande tela del '73 titolata Domenica mattina: il vassoio rotondo e metallizzato, la tazza di caffè, il giornale spiegazzato, alcuni panni lasciati accantonati. Il motivo si ripresenta nel '76, nella serie degli Interni borghesi, con la sola variante - si direbbe - che il vassoio, di cui si mantiene la forma rotonda, diventa ora tavolino da bar o tavola apparecchiata. In realtà, a distanza di qualche anno, Collina immette due forti scosse nella tranquilla quiete di quella sua prima natura morta, tali da produrre un brusco scarto quanto a distanze e ordine compositivo: di colpo, gli oggetti sono portati in avanti e sbattuti in primo piano; colti per di più da un angolo prospettico così rilevato, quasi zenitale, da far loro occupare gran parte della superficie pittorica, fino quasi a debordare. Sul tavolo, poi, le solite poche cose che si offrono nude allo sguardo del riguardante: un tovagliolo non ancora dispiegato, qualche piatto o stoviglia, un bicchiere, una tazzina da caffè. L'affondo decisivo verso la Natura morta e la piena autonomia del genere avviene nell'81-'82, con l'omonima serie, ripresa poi nel 1986. I soggetti sono gli stessi, ma Collina spinge ancor più oltre la sua volontà di avvicinamento alla dimessa realtà delle cose, portando in primissimo piano la superficie del tavolo e riducendo di conseguenza - fino quasi a farlo scomparire - lo stringato richiamo all'ambiente circostante che in quelli ancora sopravviveva, mentre l'accentuazione progressiva della distorsione prospettica arriva assai prossima al totale ribaltamento, in verticale, del tavolo: tanto da far coincidere il suo piano d'appoggio, visto a perpendicolo, con l'intera superficie della tela posta frontalmente in faccia all'osservatore. Conseguentemente anche gli oggetti acquistano sempre maggiore evidenza, fino a restare protagonisti della tela. Il passo successivo è il loro isolamento: a Collina non basta più solo avvicinarli, stringere il campo visivo, focalizzarli sempre più da vicino; adesso isola frammenti di natura morta, li incalza da presso nel tentativo di co-stringerli, finalmente, di afferrarli. é soprattutto nelle bellissime carte di quegli anni che si avverte la vicinanza di una soglia, la prossimità al punto in cui tutto si fonde e le cose parrebbero sul punto di dire. Si tratta di una serie di disegni, a carboncino o a grafite, tutti tramati di un segno minutissimo, quasi pulviscolare, che fa vibrare l'aria, si incaglia nelle pieghe della tovaglia, amalgamando in inscindibile unità le poche cose presenti sulla tavola, le luci e le ombre, lo spazio intero. Ne risulta condizionata anche la pittura di Collina che talora si muove verso esiti di maggiore immediatezza e vitalità; talaltra, senza per questo rinunciare a semplicità e naturalezza, pare percepire e tradurre il silenzio e la spoglia separatezza che si insinua tra i rari oggetti scanditi sulla superficie vasta della tela. Si attenua in questo caso anche la frenesia di-segnativa del segno per lasciare posto a slarghi di colore appena sommossi da leggeri tocchi o da macchie tonalmente vibrate, mentre la distanza tra gli oggetti si fa sempre più allusiva, si carica di tensioni nuove. é come se, quasi per caso, le cose si posizionassero su distanze critiche, con un'intenzionalità che solo l'occhio non distratto del passante può, di colpo, percepire: chiaro segno di energie latenti, ma anche sensazione indesiderata di uno strisciante disagio esistenziale. Le poche cose spaziate sulla tavola determinano infatti una dialettica della distanza che dà vita a tensioni reciproche, a pieni e vuoti, a presenze contrapposte ad assenze; la corrente in contropelo corre sul filo delle relazioni - per lo più casuali ed eterogenee - che quei singoli oggetti creano l'uno per rapporto all'altro, e sulla loro diradata presenza per rapporto alla vastità vuota dell'intera superficie. Il portato naturalistico che attraversa la pittura di Collina, da intendersi come dichiarata volontà di rappresentare le cose per quel che sono e nulla più, va così a sbattere contro l'intrinseca loro enigmaticità, contro il loro esserci carico di attese e di relazioni sfuggenti, di silenzi e di vuoti sottesi. Si direbbe che nonostante le cose vengano in superficie, nell'intento di meglio offrirsi allo sguardo dello spettatore, di esibire la propria identità e svelare la loro entità, in realtà non possano che mettere a nudo, dal loro interno, l'enigma invalicabile del loro essere rispetto al soggetto che le osserva: in definitiva, la loro inalienabile alterità. Ritornano alla mente i versi desolati di Sbarbaro: "E gli alberi son alberi, le case/ sono case, le donne/ che passano son donne, e tutto è quello/ che è, soltanto quel che è": rivelazione di una frattura ormai consumata tra l'uomo e il mondo, di reciproca estraneità. La coglieva perfettamente Roberto Sanesi, già nell'82, mettendo a fuoco "l'oggettualità enigmatica delle sue nature morte" dove gli oggetti, con "allucinato straniamento", "non descrivono se stessi ma un senso di imminenza", "un possibile precipitare gli uni verso gli altri o altrove." Se non che, a differenza di quanto avveniva in ambito metafisico, Collina non forza i giochi di luci e di ombre, non procede per omogenee campiture di colore o di chiaroscuro, non deforma gli oggetti nè li schematizza nelle forme, e neppure li assembla in vicinanze stranianti; in altre parole, non rinuncia mai alla naturalezza, al vibrato della luce e del colore, all'occasionalità delle contingenze. Le cose appaiono in definitiva come sono e come non potrebbero essere diversamente, nella loro realtà, eppure, sotto il pelo dell'acqua, qualcosa si muove. Dieci anni più tardi, nel 1996, il genere Natura morta riemerge all'improvviso, prepotentemente. Collina lavorava allora ad una serie di soggetti religiosi come l'Annunciazione, la Crocefissione, la Deposizione, la Pietà: una sorta di meditazione pittorica e laica sui fondamenti della storia cristiana. Evidentemente il ricorso all'iconografia religiosa, ha immediate tangenze e implicazioni non solo con l'arte sacra lungo la storia della nostra cultura, ma con il più vasto tema del sacro: le cui categorie - l'eterno, l'immutabile, il non transeunte e caduco, l'assoluto - Collina non affronta direttamente, e certamente esulando da qualsiasi dichiarazione di fede. Il suo primo approccio al tema è sempre di natura pragmatico-pittorica: si tratta cioè di soggetti canonici della pittura, su cui intere generezioni d'artisti si sono cimentati e confrontati, al limite non diversamente da quanto succede per il paesaggio o la natura morta, per cui non c'è ragione che l'artista odierno rinunci a commisurarsi con quella tradizione e con i suoi significati. E' all'interno di quel continuum che, a un certo punto, si profila in lui l'idea di accostare l'Ultima Cena: un soggetto carico di storia, di tradizione iconografica e di reminescenze letterarie, con la mente che subito corre a Leonardo per un lombardo come Collina, ma che poi attraversa un diapason vastissimo di memorie visive e di soluzioni formali: dai consunti affreschi medioevali disseminati nelle pievi alpine, ingenui dialettali vivi, alle espressioni colte del Luini, del Crespi, del Rubens di Brera (per limitarci all'alta Lombardia). In realtà l'incipit di Collina è subito uno scarto rispetto alla tradizione: il suo primo interesse non è per il momento alto dell'istituzione dell'Eucarestia, nè per quello leonardesco dell'annuncio che "uno di voi mi tradirà"; ciò che immediatamente lo attira dell' Ultima Cena è l'idea povera di mensa, il concetto di agape che si configura nellèimmagine del desco, cioè del pasto comunitario consumato attorno alla tavola. All'inizio, forse, sono solo "frammenti" - così“ almeno nei titoli - di una più vasta pittura ancora da nascere: Un piatto sul tavolo, per un'Ultima Cena; Quattro piatti; Frammento di Ultima Cena; poi però il soggetto prende vigore e sviluppo senza che il pittore si senta in obbligo di tornare all'iconografia della tradizione. Si direbbe anzi che Collina ne senta il peso, e che, per per sottrarvisi, si sposti a lato, lavori sempre e solo sugli elementi a margine, eluda il soggetto vero di quel momento. Forse, in tutta la storia della "pittura sacra" dipinta da Collina, mai come in questo caso, l'artista deve aver profondamente sentito l'intrinseca difficoltà di aderire a ciò che la pittura dice, perchè dipingere è anche un dichiarare, un prendere parte. Ma se l'Annunciazione è pur sempre anche un messaggio laico di speranza, se la Crocefissione è sempre segno universale del dolore e della violenza che imperversano sul mondo, di fronte all'Ultima Cena, l'artista deve aver avvertito tutta la distanza, non solo temporale, che separa l'uomo della modernità dalle implicite dichiarazioni che quella pittura sottende. La laicizzazione della scena è intrinseca all'abbassamento dello sguardo, al restringimento del campo visuale: perchè spostando e concentrando il proprio sguardo unicamente sulla tavola, e non più sul Cristo, l'artista sposta anche i significati connessi all'antica iconografia. Tanto più se al restringimento dello sguardo corrisponde anche un evidente abbassamento del tono: perchè quella tavola che in passato è stata occasione per creare mirabili brani di natura morta a margine dell'immagine principale, non solo viene posta ora quale unico centro focale dell'intera composizione, ma è subito ricondotta alla dimessa quotidianità dell'esistere, si offre nei modi e nelle forme del vissuto: alcuni piatti sulla tavola, del pane, poche stoviglie, un bicchiere. In apparenza immagini e situazioni non si discostano dalla produzione degli anni '81-'86; a una prima impressione, pare infatti che Collina venga risucchiato nel gorgo delle sue nature morte precedenti; in realtà sta camminando per altre strade o, meglio, sta cercando di trasporre quelle nature morte su un diverso piano di intenti e di significati. Egli riprende sì il vecchio genere, ma operando questa volta all'interno della riflessione su temi religiosi portata avanti lungo un decennio, e senza eludere - anzi in certo qual modo volendola conservare - la componente sacrale connessa al rito dell'Ultima Cena. Ne sono prova le sue prime opere sopra citate: rispetto ai precedenti tavolini da colazione non vengono meno sia il portato naturalistico degli oggetti, sia il vibrato luministico del colore (che va comunque attenuandosi per assestarsi in slarghi più omogenei, in grumi più campiti e dimessi); ma mentre in quelli la posizione dei singoli oggetti - di solito ai margini della tela - sembrava frutto del caso, così come occasionale era la loro eterogeneità, qui essi si legano in base a criteri di omogeneità e funzione (per esempio Pane e vino, Quattro piatti, e nulla più), si dispongono su correlazioni di misura e di ordine che rivelano un'intenzione. Ora la tavola è chiaramente un insieme di relazioni ordinate rispondenti a un progetto oppure un implicarsi di elementi che hanno assolto la loro reciproca funzione. Se prima erano i singoli oggetti ad acquisire evidenza, nel rapporto a distanza tra di loro e poi con l'intera superficie, qui di colpo è l'insieme a offrirsi come elemento primo e unitario; non è più l'individuale a richiamare l'attenzione su di sè, ma il tutto che si assesta in un'aura silente. Nelle opere di più intensa rarefazione, quegli oggetti vivono infatti in unÕatmosfera che li carica di aspettative nuove, si trasformano in attori muti, ma vivi, dello spazio scenico da loro stessi occupato per quanto passivamente agito. In effetti, se ne stanno come bloccati in un tempo sospeso, quasi fossero nell'attesa che l'evento si compia (dando loro una giustificazione di senso), o come lasciati provvisoriamente a se stessi una volta che l'evento si è concluso. La narrazione non è dunque conclusa, implica un prima e un poi, un tempo anteriore o un seguito a venire: di conseguenza, anche la fermezza del luogo viene intaccata dall'oscillazione di un tempo che si estende oltre la momentaneità raffigurata, oltre i limiti brevi della scena, e che non si sa come o quando concluderà. Alla enigmaticità delle cose percepita nelle opere degli anni precedenti, si sostituisce qui il sentimento diffuso di un'assenza, l'aspettativa di un completamento. Di tutta la componente iconografica, rituale e "sacra" dell'Ultima Cena, Collina preserva dunque solo quel desco familiare, non rappresentato intimisticamente, e neppure in maniera sbrigativamente naturalistica, ma cercando di immettervi il senso di un'attesa, perchè qualcosa deve pur capitare o è capitato. Il punto è qui: forse il sacro per Collina coincide proprio con questo qualcosa che sempre si attende; forse il sacro è un vuoto da riempire, cui corrisponderebbe la piena coincidenza di spazio e tempo, oggi ancora così sfasati; forse il sacro è proprio questa perenne e sempre insoddisfatta sete di senso e funzione, di vedere cioè che le cose rispondono a un progetto più vasto: non sono solo frutto del caso - per quanto ci si sforzi di dominarlo - dentro la linea del tempo. é quindi un vivere di potenzialità sperate e forse irrealizzabili (ma il sacro è per natura intangibile), è l'amaro di un mancamento che ci segue ovunque, è un bisogno di pienezza che passa però attraverso il quotidiano (ecco il paradosso: perchè quei piatti sono i piatti di ogni giorno, mentre il sacro è il non quotidiano), e lo riscatta. In termini pittorici, la sfida di Collina è quella di posizionare la sua pittura su un discrimine precario e laico, ma di una laicità per certi versi sacralizzata o che aspira a esser tale: perchè mentre da una parte egli opera un marcato abbassamento del tema religioso e della sua alta tradizione iconografica, scegliendo di chiudere il proprio orizzonte su una porzione angusta e dimessa della tavola da pranzo, abbassando quindi i connotati del sacro al quotidiano, rinunciando a messaggi alti; dall'altra egli aspira a investire la quotidianità di una certa qual carica o attesa di sacralità. Il tutto stando all'interno di una pittura figurativa, continuando cioè ad operare dentro il portato figurativo che caratterizza tutta la sua storia di pittore e non interrompendo il dialogo con la grande tradizione iconografica, ma variandoli, al di là di ogni esteriorità mimetica come pure di semplice ripresa.In questo senso l'artista spinge ancor più oltre il desiderio di avvicinamento alle cose, nella volontà quasi, se fosse possibile, di calarvicisi dentro. Si accentuano infatti le anomalie prospettiche, i punti di vista differenziati, le improbabili distorsioni visive assemblate simultaneamente: come se l'artista girasse continuamente attorno all'oggetto, in un continuo spostamento del punto di osservazione (con chiari ritorni alla prospettiva plurima e a certa iconografia medioevali), rovesciandolo come un guanto, nell'intento di andargli sempre più vicino, sempre più addentro. La rinuncia al punto di vista unificato significa la rinuncia ad assumere la posizione privilegiata scelta dall'osservatore, ad abbandonare la funzione accentratrice della ratio che stabilisce prioritù e subordinazioni, in certo qual modo ad abbandonare il ruolo egemonico e privilegiato dell'io, per dare invece spazio alla pluralità e al molteplice, ad una totalità di prospettive che è anche disponibilità alla compartecipazione. Si spiega così anche la continua variazione delle tecniche: Collina, quando affronta un tema, lo aggredisce da tutte le parti, passa dal disegno all'olio, dagli smalti agli impasti di terre, dall' accensione cromatica al monocromo, dallÕispessimento dei rilievi ai collages; prova di continuo, e con grande mobilità, strade, mezzi e soluzioni diversificati alla ricerca sempre di quel varco che lo porti finalmente dentro il cuore delle cose, che sono poi metafora della vita stessa. Il desiderio di dare consistenza di realtà all'immagine dipinta è tale da indurlo non solo a un progressivo avvicinamento dell'oggetto, ma da farlo coincidere con la superficie stessa del supporto. Ritagliando i profili scorciati della tavola rappresentata bidimensionalmente su una precedente tela, egli la isola e decontestualizza, ma le conferisce anche piena autonomia di oggetto in sè compiuto: in altre parole, contravvenendo al buon senso delle norme prospettiche, la sottrae alla subordinazione del contesto spaziale (che rimane comunque implicito), per assolutizzarla, quasi fosse davvero una tavola-dipinta appesa al muro. Ma lo fa sempre da pittore, rimanendo cioè all'interno dello specifico della pittura e delle sue norme di raffigurazione, anche quando sono chiaramente violate o contradditoriamente accostate. Il passo ulteriore è quello che dalla rappresentazione oggettiva delle cose porta alla loro trasposizione oggettuale: dal dipingerle al farle, a dare loro consistenza di corpo. Nascono così i rilievi che sommuovono il piano bidimensionale della tavola, gli altorilievi veri e propri, le inclusioni di oggetti reali (piatti, bicchieri, stoviglie) o, ancora, la breve serie di sculture in gesso. Salvo in quest'ultimo caso, realtà e finzione prospettica si mescolano, si confondono, si sorreggono a vicenda. Variando di continuo soluzioni formali, angoli prospettici e modalità tecniche, il pittore rinnova quotidianamente il suo tentativo di presa sulle cose, metafora di un'analoga volontà di afferrare finalmente la realtà del mondo, di coglierne l'anima: quell'inafferrabile "oltre" che sta dietro, sotto le parvenze delle cose, e ne costituisce l'essenza profonda. Eppure, paradossalmente, tanto pià gli si avvicina, tanto pià quello si allontana, si sottrae alla presa, si isola in un'isola di silenzio carica di mistero. Lo scacco è compagno di strada, giorno dopo giorno, eppure il bisogno di tentare è insopprimibile: ma forse, per chi vive, non si dˆ altra soluzione se non in questo tendere.
Dipingere è anche sempre specchiarsi: si dipingono certe cose perchè sono quelle in cui ci si ritrova o ci si proietta. Le nature morte di Collina, dai suoi esordi a oggi, sono tutte rigorosamente monotematiche; si riprendono e rilanciano nel tempo, ma non conoscono digressioni: a dimostrazione di una stringente correlazione tra il soggetto che dipinge e l'oggetto dipinto. Altrettanto evidente è la loro progressione lungo la linea del tempo, con un amplificarsi delle problematiche che includono domande sempre più vaste. "Il primato dell'oggetto risulta - dunque - ingannevole", aveva già scritto Sanesi: in tutte le opere di Collina "l'oggetto, liberato da intrusioni depistanti, continua infatti a funzionare come un riflesso, e come un mezzo di riflessione." Questo significa che nell'atto stesso in cui si realizza tale specchiamento, in un eterno processo di andata e ritorno tra soggetto ed oggetto, magari anche inconsapevolmente, l'artista mette in gioco una parte di sè, investe la sua pittura di significati e aspettative che lo oltrepassano, anche se, di fatto, Collina sostiene di voler semplicemente pitturare una tavola da pranzo, così da dare corpo alla realtà attraverso la pittura. Ed è vero, perchè a voler guardare fino in fondo, quello che egli vorrebbe non è di dipingere nature morte, men che meno "belle" nature morte, ma di riuscire finalmente a ri-creare una realtà viva o, quantomeno, che consuoni appieno con la vita. é questa l'aspettativa profonda che attraversa tutta la sua pittura e il suo multiforme fare artistico. Per caso, leggendo un suo vecchio testo del 1984, scritto quindi in anni lontani e per tutt'altra occasione, mi sono imbattuto in un passaggio dove Collina si autodescrive mentre se ne resta "chiuso in casa a ricostruire sul tavolo da pranzo (dice proprio così!) la vita e il lavoro di studio e di città." Di colpo mi si è fatta più chiara la centralità e la polisemia di quel tavolo continuamente presente nella sua pittura: perchè quel tavolo è davvero la vita di ogni giorno, nel bene e nel male, è la famiglia che puntualmente vi si ritrova con i suoi piccoli problemi, è il crescere ogni giorno un poco, l'essere qui insieme, oggi, pensando a come sarà domani; quel tavolo è anche il lavoro, è il crocevia degli incontri riusciti e delle occasioni mancate, luogo di condivisione ma anche di divisione e tradimenti (Giuda); quel tavolo è la sera che cala, momento di consuntivi e di bilanci (talvolta anche mancati); quel tavolo è fors'anche il tavolato ultimo dove si depositano le spoglie della vita. In questo senso, sè, quel piatto bianco ed unico, al centro della tavola, può trasformarsi in unÕostia. L'imminenza di cui parlava Sanesi diventa allora un'immanenza radicata dentro l'individuale esperienza del vivere: non un grande supplizio che impedisce la vita, ma la sensazione continua di un'assenza, di una mancanza che si vorrebbe veder colmata. Intanto, nell'arte come nella vita, il pittore va, senza certezze, in un ciclico stupirsi, perdersi e trovarsi, tra le cose del mondo, con la vertigine, che talora ti prende la gola, di uno spazio spalancato e precipite.