GIULIANO COLLINA

La vita in studio

 

LA VITA IN STUDIO E LO STUDIO DELLA VITA

   Lo studio di Giuliano Collina si trova al piano terra di un ex edificio industriale d’inizio Novecento, all’interno di un ampio complesso in una zona semiperiferica di Como. Vasto e privo di pareti divisorie, lo spazio è parzialmente ripartito da alcune quinte che circoscrivono l’area in cui l’artista realizza le sue opere. Il resto della superficie è occupato dal magazzino, da una sobria biblioteca che raccoglie quasi solo cataloghi di mostre, da un salottino un po’ raffazzonato, dove l’artista riceve gli amici, ma soprattutto, e a lungo, legge. Quali testi legge? Di rado quelli presenti nei cataloghi: direi anzi che la biblioteca dello studio nei fatti ha la funzione di una iconoteca, di una raccolta di riproduzioni di opere d’arte. Le sue vere letture sono costituite da libri di narrativa, biografie di artisti, interviste a scrittori e saggi letterari accatastati sul divano e sul tavolo retrostante: molto Simenon, con e senza Maigret, molte copertine siglate Adelphi, non poche neppure le pagine con macchie di colore a olio sui bordi.      
   Dando per vero che «l’aspetto dell’atelier – come scrive Flavia Matitti – riflette soprattutto il modo in cui l’artista concepisce il proprio lavoro» può essere opportuno rilevare che lo studio di Collina non richiama né «l’Officina del Mago», «il luogo del sortilegio, della trasformazione quasi alchemica grazie alla quale l’idea si fa pittura», vagheggiato dagli esponenti delle avanguardie storiche, né l’efficiente ambito operativo di un «Meister» postmoderno qual è Gerhard Richter. 
   Né mago, né maestro, Collina è semmai un artista umanista che si inserisce in una certa tradizione otto-novecentesca: un pittore che riflette sulle sue modalità creative senza teorizzarle, procede laicamente per «tentativi ed errori» invece che per assiomi implicitamente metafisici, coltiva più la letteratura che la filosofia.   
   Un angolo dello studio è perennemente occupato da ciò che Collina chiama sorridendo la poubelle. In quest’area tutto sommato non piccola, e collocata nell’intersezione tra due quinte, vanno a finire i dipinti o i disegni che non vengono ritenuti convincenti, i progetti di sculture, gli avanzi di strumenti di lavoro che hanno esaurito la loro funzione: una mole di materiale rilevante, prodotta da un artista che ama passare in studio l’intera giornata, come accadeva in tempi teneramente antichi, e che crea a ritmo sospinto. Prima di essere gettati nella vera e propria poubelle, a fine giornata questi scarti vengono passati di nuovo in rassegna. Alcuni tra loro, magari per un dettaglio di fortuita eleganza, sfidano la creatività di Collina: nascono così gli LCA (Le Cose Avanzate), dei lavori che già nel titolo mettono in chiaro il loro alveo di provenienza. 
   Se volessimo individuare il significato di quest’origine, dovremmo anzitutto cercarlo in un orizzonte novecentesco: non potremmo ignorare infatti che «la cultura del secolo – come scrive Lea Vergine – è gremita di recuperi, di riusi e contaminazioni, di lacerti, frammenti, scarti, “rumori”». Anzi, «parafrasando un testo del 1966 di Giorgio Manganelli» potremmo finanche «sostenere che “la spazzatura è il linguaggio”». Dovremmo rammentare inoltre che «i rifiuti sono già stati usati in molte opere delle avanguardie d’inizio secolo – dai futuristi a Kurt Schwitters, da Picasso a Marcel Duchamp: opere che, da un bel pezzo, nessuno pensa di contestare come arte. L’intento fu, ai tempi, di affermare che anche con la carta straccia, le corde, gli spaghi, i rottami e i biglietti da viaggio usati, cioè con materiali ritenuti vili, si poteva dar luogo a manufatti a carattere estetico esattamente come si faceva adoperando materiali nobili e tradizionali». Si trattò allora di «un gesto di protesta» che, nei lavori degli anni sessanta-settanta, assumerà anche un carattere di «critica sociale», di «denuncia del consumismo», mentre in quelli dei decenni successivi avrà soprattutto «il senso di un cerimoniale apotropaico, di una sorta di esorcizzazione contro i nostri ulcerosi disagi di fine secolo». 
   Gli LCA più che una protesta rappresentano, come abbiamo già detto, una sfida, e sono privi sia di risvolti sociali, sia di valenze apotropaiche. La loro pattumiera di riferimento, d’altra parte, non è quella del boom economico, com’era invece per le opere di Pino Pascali e Ben Vautier, e neppure quella del consumismo più o meno globalizzato, da cui attingono Tom Sachs e Nancy Rubins tra i molti altri. La poubelle da cui scaturiscono è quella dello studio di un artista, e ciò, all’interno del panorama novecentesco di «riusi e contaminazioni», li rende, se non un unicum, comunque qualcosa di davvero insolito.          
   Insoliti peraltro gli LCA lo sono anche nell’ambito del percorso espressivo di Collina. Nell’ultimo decennio l’artista lariano ha realizzato perlopiù dipinti in cui l’energia del colore ha il sopravvento sulla definizione della figura, pur non eclissandola. La serie degli LCA (iniziata all’incirca dieci anni fa) rappresenta una sorta di controcanto a questo processo: la nascita dei singoli lavori infatti è determinata da una suggestione cromatica presente nel materiale avanzato che suggerisce però una figura. Spesso si tratta di figure più mentali che reali, anzi per la precisione più verbali. L’immagine acquisisce un profilo riconoscibile grazie al titolo dell’opera, scritto a mano dall’artista e posto letteralmente in bella vista. Quasi sempre si tratta di una formula con una dose ben calibrata di humour che si mescola a una vaga memoria d’infanzia. È così che prendono allusivamente forma sagome di animali esotici (Ho la proboscide, Dumbo, Cimitero degli elefanti), personaggi e oggetti favolosi (La tenda di Aladino, Il bucato di Arlecchino, La scopa del diavolo) o mitici (La barca di Ulisse, Un berretto per Mercurio, Il vaso di Pandora); e poi ancora paesaggi e situazioni in cui non si sa se prevalga una posa beffarda o una ruvida tenerezza, entrambe malcelate sotto una coltre di colori vividi e materiali magmatici.  
   In queste Cose Avanzate i rimandi alla cultura visiva del Novecento sono numerosi e stratificati: più nitidamente possiamo scorgere alcuni echi della poetica dadaista, dei richiami alla pittura pop (nel cui solco Collina ha esordito), qualche traccia delle avanguardie verbo-visuali. Forse però gli LCA sono in primo luogo dei riscontri involontariamente diaristici della vita condotta in studio dall’artista: non possiamo dimenticare infatti che, se «i rifiuti – come sostiene Guido Viale citato da Lea Vergine – sono un documento diretto, minuzioso e incontrovertibile delle abitudini e dei comportamenti di chi li ha prodotti, anche al di là delle sue stesse convinzioni o della percezione che ha di se stesso», per un artista lo sono tanto più le opere realizzate con i rifiuti del suo ciclo creativo.
   Può anche darsi infine che questi lavori testimonino della capacità dell’arte di generarsi da sé. Dovremmo quindi ritenerli degli esempi di pittura autoreferenziale, indifferente alla vita, di arte incontaminata (e, com’è sottinteso, sterile benché gradevole)? Le opere di Collina sono sempre in qualche modo contaminate, sporche: in un certo senso anzi i suoi dipinti costituiscono l’opposto speculare dei romanzi macchiati di colore che si accatastano nel suo studio; possono essere considerati insomma entità cromatiche screziate da un’ipotesi di racconto. Bisogna riconoscere poi che la pittura, ancor prima di rappresentare la vita, ha il compito di studiarla, di individuarne e scomporne i meccanismi di fondo, di smontarne i congegni narrativi che ci permettono di raccontarla, sino a isolare le situazioni basilari di cui sono costituite le grandi storie. Scomporli e poi ricomporli tentando finanche di ricrearli, a un livello ancor più basilare, con le scorie di questo stesso processo di studio. Quale luogo migliore per farlo dell’atelier di un artista rifornito di ottime letture? 

Roberto Borghi